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Illustrazioni

Le Avventure di Otto e Bea


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Mi chiamo Otto e sono un lupetto bastardo. Il mio primo ricordo è una mano umana che mi prende dalla cesta e mi infila in un sacco di juta insieme ai miei sette fratelli per poi tirarci fuori dopo una mezz’ora in un campo gelato per ammazzarci a bastonate prima uno poi l’altro poi il terzo poi il quarto il quinto il sesto e il settimo mentre io per pura fortuna mi infilavo nel buco di una talpa.

Fuori nel mondo crudele sentivo questa voce di uomo che gridava: erano otto, ne ho ammazzati sette, dove sei numero Otto? Dove sei scappato, Otto?

Questo è stato il mio battesimo. Nel buco della talpa sono rimasto per sette giorni, mangiando i ranocchietti e le lumachine che la vecchia talpa padrona di casa mi metteva davanti al muso. Le erano morti recentemente i suoi due talpini.

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All’età di due mesi, mentre facevo le mie prime jpiccole escursioni fuori dal mio bozzolo di cane- talpa, sono stato preso e portato via da due tipi, il tipo e la tipa, i quali tra di loro si chiamavano proprio così: ehi tipo, scusa tipa. Sono stato con loro un paio d’anni in una mansarda in un vecchio quartiere.

Poi loro si sono lasciati. Lui l’ha mollata. Non ti reggo più, tipa. Io sono rimasto con lei. Le prime sere non faceva che tenermi abbracciato, piangere, e dire: bastardo.

Poi c’è stato un periodo in cui si è messa a bere. Da ubriaca, mi prendeva a calci e mi diceva: bastardo.

Effettivamente lei non mi ha mai voluto bene. E’ con lui che io mi divertivo. E’ con lui che mi capivo. Ma un cane non si sceglie il suo padrone. Un povero bastardo deve prendere quel che viene.

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Certo ci sono rimasto di merda quando ai giardini abbiamo visto lui. Al guinzaglio aveva un altro cane. Femmina. La sera lei a casa mi ha detto: dobbiamo fargliela pagare. Il giorno dopo siamo andati in drogheria. Ha comprato del veleno. Poi ha telefonato a lui. Ha fatto le moine.

E gli detto: portala qui, quando devi andare via.

Alla fine lui ha portato qui la sua nuova cucciolona. Si chiama Bea. Una specie di volpina bastarda anche lei, molto più bastarda di me, se devo dirla tutta. Ci siamo messi subito a giocare.

Quando è stato il momento della sbobba la tipa ha preso il veleno e l’ha messo nella ciotola di Bea. Rapido, ringhioso e astuto mi sono gettato sulla sua ciotola. E ho evitato che mangiasse quella roba nell’unico modo possibile.

L’ho mangiata io. Un povero bastardo deve essere sempre pronto a dare la vita per salvare la cagnetta per cui batte il suo cuore di cane.

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Ma un povero bastardo prima di schiattare le prova tutte. Così, col veleno nel pancino, ho cominciato a correre senza fermarmi.

La casa-studio del veterinario era a cinque chilometri. Ero quasi arrivato quando ho cominciato a sentirmi morire. Ma la cucciolona mi aveva seguito. Mi ha preso in bocca e mi ha portato là. Conosceva il posto.

Il veterinario ha capito subito e mi ha fatto la lavanda gastrica. A un certo punto l’ho sentito dire: lo perdiamo. Invece il vecchio bastardo se l’è cavata. Ma non era finita. La tipa è arrivata dicendo che avevo mangiato un topo morto avvelenato.

– Otto! – mi ha detto col suo falso tono sentimentale. Dal lettino le sono zompato al collo, con l’idea di infilarle le zampe negli occhi e i canini nella giugulare. Mi sono aggrappato al suo girocollo di false perle, poi sono volato per terra senza nemmeno romperglielo. E’ una reazione, ha detto il veterinario.

Approfittando del trambusto, Bea e il sottoscritto se la sono data a zampe. Dopo mezz’ora, senza fiato, ci siamo fermati ai giardinetti. Visto un cespuglio, ci siamo buttati dentro. Raccontami la tua storia, le ho detto, mentre la leccavo tutta. E lei ha cominciato.

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Mi chiamo Bea Lee e sono nata in Manciuria.

Fin dalla nascita mi hanno addestrata a correre sull’acqua. Per tutta l’età dello sviluppo le mie zampe sono state fasciate molto strette tra due tavolette di legno.

Lo scopo era quello di costringere le mie zampe a diventare simili a quelle delle anatre. Con me c’erano altri cani di ogni razza.

La selezione è stata durissima.

Dopo tre anni di esercizi quotidiani riuscivo a fare più di cinquanta metri di corsa sull’acqua. Il mio maestro lanciava un bastoncino nel lago io correvo a prenderlo e glielo riportavo.

La difficoltà più grande è nel momento dell’inversione di marcia. E’ lì che rischi di andare a fondo.

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Un bel giorno è arrivato un uomo d’affari italiano.

Dopo aver visto quello che sapevo fare mi ha comprato. Mi ha portato a casa sua, a Sarnico. Il sabato mattina ci siamo recati sul molo.

Il mio nuovo padrone ha lanciato un bastoncino nel lago e io sono andata a prenderlo di corsa. Un vecchietto dell’associazione marinai di Sarnico era sul molo a guardare e scuoteva la testa.

Allora il mio padrone ha lanciato di nuovo il bastoncino e io di nuovo sono corsa a prenderlo e a riportarlo. Ma il vecchietto scuoteva ancora la testa. Per la terza volta ho dovuto correre sulle acque del lago.

Quando sono arrivata sul molo, il vecchietto, scuotendo la testa ha detto:

“Quel cane lì non impara più a nuotare”.

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E com’è, ho chiesto a Bea, che sei finita con il tipo?

E’ una lunga storia, ha detto lei, e stava iniziando a raccontarmela quando abbiamo sentito delle voci. Ci stavano cercando.

Allora ci siamo rimessi a correre a più non posso. Si correva per la nostra libertà, mica per altro. Com’è come non è, a un certo punto mi giro e Bea non c’è più. Torno indietro, la cerco di qui, la cerco di là, non la trovo più. Persa.

E’ così. Conosci una cagnetta che ti fa battere il cuore, si scappa insieme, ci si perde. Ti ritrovi solo. Come un cane. Ho continuato a cercarla non so per quanti giorni. Ormai ero diventato un cane randagio.

Col pericolo di essere catturato dall’accalappiacani. Così, per non dare nell’occhio, ho accettato la compagnia di un signore che a notte fonda usciva ubriaco da un certo bar.

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L’ho accompagnato a casa e lui mi ha dato una ciotola d’acqua e del pane secco. Sono rimasto a dormire da lui.

La mattina mi ha chiesto: come ti chiami?

Ho abbaiato otto volte, e lui ha detto: Otto!

Io ho risposto: arf. Era nato un rapporto cane -padrone. Tutte le sere lo seguivo al bar e lo riportavo a casa ubriaco. Camminando, barcollava e si lasciava cadere. Dovevo abbaiare per tenerlo sveglio.

A casa lo vegliavo. Di solito stava male tutta la notte. Di giorno si dormiva. La sera, come ho detto, si usciva. Siamo andati avanti così per qualche mese. Poi un brutto giorno mi sono svegliato e ho percepito qualcosa di strano.

Il mio padrone era nel letto con gli occhi aperti. Era morto. Suo figlio, un tossicodipendente, ha detto: Otto lo prendo io.

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Per due inverni abbiamo bivaccato sotto i portici.

Chiedevamo l’elemosina. Ma quello era niente. Il padrone mi attaccava al collo dei pezzi di cartone. Stava tutto il giorno a pensare cosa scriverci sopra.

Così per diverse settimane ho portato un cartello con scritto: aiutatemi a sfamare il mio padrone.

Poi quando avevamo tirato su un po’ di soldi andavamo a comprarci una dose. Quando il mio padrone si faceva io lo vegliavo così come avevo vegliato suo padre.

Ma una notte ho capito che stava morendo. Allora sono corso al posto di polizia della stazione. Come speravo, ho trovato il cane antidroga di servizio.

Il problema non è stato spiegarmi con lui, ma con l’agente sui due piedi. Alla fine comunque mi hanno seguito e hanno chiamato l’ambulanza.

Quella stessa notte sono finito al canile.

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Ero al canile da tre giorni, ormai.

Al canile è come in galera, ma senza televisione e senza giornali. Non mi avevano fatto sapere niente del mio padrone.

Mi chiedevo: si sarà salvato? O sarà morto?

Cominciavo a preoccuparmi anche per me, del resto. Ero in questo stato diciamo pure depresso quando dal furgone dell’accalappiacani vedo scendere una sagoma inconfondibile.

La mia Bea! Cosa ci fai qui?

E lei: ti cercavo, babbione. Non vi dico le feste, i salti, le capriole che abbiamo fatto. Ci hanno messo in due gabbie vicine, per fortuna.

Così dopo i festeggiamenti ci siamo messi uno addosso all’altra, fa niente se avevamo le sbarre a separarci, e le ho detto: racconta cosa ti è successo in questi mesi.

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Ho vissuto con un certo Silvio. Un viaggiatore.

Appena mi ha visto mi ha portato con sé. Voleva fare tutta l’Africa del Nord col suo vecchio Transit.

Ma a Tangeri si è innamorato di Aisha, una ragazza di sedici anni con la pelle olivastra e gli occhi verdi. Per poterla avere, l’ha dovuta sposare, e per poterla sposare, si è fatta musulmano. Da Silvio che era è diventato Alì Said.

Io da Bea che ero sono diventata Beisha. Ci ha portati in Italia, me e Aisha, in una villetta tra Bolgare e Telgate.

Essendo musulmani, non si poteva più mangiare carne di maiale. Alla prima nebbia lei è tornata in Marocco, Alì Said è tornato Silvio e io sono tornata Bea.

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Per tutto l’inverno Silvio ha mangiato carne di maiale, e io i suoi avanzi.

La primavera successiva Silvio è partito per l’Oriente. Io sono rimasta di guardia alla villetta. Ogni giorno la sorella di Silvio mi portava da mangiare.

Poi ogni due o tre giorni. Con i primi freddi è tornato Silvio. Ma non si chiamava più Silvio. Era diventato arancione.

Il suo nuovo nome era Silvosho. Il mio Beosha. Basta carne bovina. Poi Silvio si è innamorato di una ragazza amante degli animali.

Mi ha portato dai migliori veterinari. E’ risultato che sono una cagnetta con difficoltà di digestione. Queste difficoltà, ha spiegato il veterinario, hanno origine psicologica.

Lo dimostra il fatto che fatico persino a riconoscere il mio nome.

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E adesso, mia amata Bea? Che fine faremo?

Da qui non si scappa. Ci faranno fuori?

Io mi sento nel pieno della mia gioventù e mi dispiacerebbe proprio tanto dover dire addio a questa bella vita soprattutto adesso che ho ritrovato te, luce dei miei occhi.

Si, dolce Otto, anch’io provo i tuoi sentimenti e vorrei correre liberamente insieme a te sui prati e anche sulle acque.

Sulle acque no, io in acqua non ci sono mai stato. Ma tutti i cani sanno nuotare, è un fatto naturale.

Sarà anche un fatto naturale, ma a me non sembra, del resto non mi risulta che i pesci sappiano abbaiare, i pesci sono muti, e dunque perché un cane dovrebbe saper nuotare?

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Eravamo impegnati in questi discorsi quando è arrivato il custode.

Voi due, ha detto. Ci siamo. Quale crudele destino ci aspetta? Che cosa potrà mai riserbare questo mondo freddo e violento a due poveri cagnulli clandestini come me e Bea? Né io né lei abbiamo i documenti.

Non siamo registrati all’anagrafe animale. Lei è una extracomunitaria immigrata illegalmente. Io sono un orfano scampato per miracolo al cucciolicidio.

I nostri occhi e le nostre orecchie e le nostre code sono puntate sulla faccia butterata del guardiano del canile che ci viene incontro con le chiavi delle gabbie in mano.

Vi è andata di lusso, dice. C’è qui fuori un’animalista che ha deciso di adottarvi.

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L’animalista ci porta in una cascina in val Rossa e ci dice: questa è la vostra nuova casa.

Molto sospettosi, io e Bea ci guardiamo in giro. Sembra tutto a posto.

Il fatto è che quando sei abituato a fare una vita di merda senza un posto dove stare in pace e sempre sognando un posto dove stare in pace quando poi accade il miracolo e ti offrono un posto dove stare in pace ti succede che ti senti fuori posto.

Ma se hai qualcuno con te, ce la puoi fare. E così io e Bea, dopo i primi giorni di studio, abbiamo iniziato a lasciarci andare.

Si, la vita può ricominciare bella e solare in qualsiasi momento.

E’ questo che vorrei abbaiare a tutte le persone tristi che vedo in giro.

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La mattina è dedicata alla cura del corpo e al monitoraggio del territorio.

Corsa in montagna, nascondino, pesca dei gamberi nel ruscello, eventuale leccaggio reciproco delle piccole ferite che sempre ci si procura nella vita nei boschi, osservazione degli abitanti della zona e delle loro abitudini, attività di pubblica sicurezza verso gli sconosciuti.

Quindi sbobba e siesta nello studio. Perché lei dipinge, la nostra padrona. E cosa dipinge?

La nostra storia, di me e di Bea. Perché noi cani, quando ci fidiamo di una persona, gli diciamo tutto. Se tu guardi negli occhi il tuo cane, ci vedi tutta la sua storia.

E così fa la nostra padrona. Poi prende i suoi colori, le sue tele, e dipinge tutte le disavventure che io e Bea portiamo negli occhi.

Lei se le porta dentro poi le tira fuori e le fissa sulla tela. Perché lo faccia non lo so, ma in questo modo si passano dei bei pomeriggi.

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Non si ha davvero idea delle cose che vede un cane – anche se i neuro scienziati sostengono che noi cani vediamo le cose in bianco e nero: cioè, se è per distinguere il bene dal male, è vero, ci vediamo in bianco e nero, distinguiamo subito una persona malvagia da una buona … ma riguardo alla vita, ce ne capitano di tutti i colori!

Ad esempio l’estate scorsa siamo andati al mare. Sulla spiaggia c’era una barca dove io e Bea ci mettevamo sempre a dormire.

Poi quando ci svegliavamo saltavamo fuori per fare quattro corse sul bagnasciuga. Ma quel giorno è successo qualcosa di un po’ diverso. Il fatto è che la nostra padrona aveva messo la barca in acqua.

E quando sono zompato fuori mi sono ritrovato in mare. Bea mi ha subito imitato. E’ così che ho imparato a nuotare.

Come essere in una barca e non vedere il mare.

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E poi giorni mesi e anni di vita bella semplice all’aperto o al calduccio, seguendo il ritmo delle stagioni dell’anno e della vita, giocando abbaiando e rincorrendoci, sempre aspettando con grande piacere quei momenti quei gesti quei rumori di ciotole che significano sbobba e delizia.

E poi, quando la padrona è fuori, buttarsi di nascosto sul divano a fare una pennichella acciambellati insieme.

Perché la vita di un cane è questo, godersela con sentimento e filosofia, finchè ce n’è, perché poi il nemico arriva, lo sappiamo, la fine non è mai lieta, questo vale anche per il padronato umano, il nemico arriva sempre, e si porta via il nostro amore, per sempre, noi lo sappiamo, in un guaito c’è tutto questo.

Dove sei Bea?

Guardo la tua ciotola vuota, e sento ancora il tuo odore. Sei parte di me, stupida cagnetta, dove credi di andare.

Un giorno ti ritroverò, cosa credi, e allora correremo ancora insieme sui grandi prati in fiore.

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